Ieri mattina la libraia è uscita a fare la spesa.
Fa la fila, resta a debita distanza, scambia due sorrisi con chi la precede e poi entra.
Dice buongiorno e rapidamente mette nel carrello le cose scritte nella lista.
Quando ha fatto, va in cassa, e chiede alla cassiera: come va?
Lei, la giovane ragazza, la guarda tra lo stupito e lo sbalordito, ed esclama a voce alta: cosa ha detto?
Mentre la libraia sta per ripetere – che tra mascherine e clausura anche a parlare è diventato strano – il collega le fa: caspita, c’è qualcuno che ce lo chiede.
E allora la cassiera aggiunge: già, infatti, non capivo, non ci sono più abituata.
Così mentre lei conteggia e la libraia imbusta, le parole sgorgano a fiumi. 60 secondi di pura realtà. Di come state, cosa fate, cosa provate. 60 secondi di vita. Umana, toccante, palpitante, anche a distanza, anche con i guanti, anche con le mascherine.
E allora la libraia – che a casa si accorgerà di aver dimenticato il bancomat in cassa per la gioia di ritrovare contatti umani – riflette che domani, quando sarà, toccherà insegnare educazione umana a scuola e imparare parole preziose.
Toccherà riscoprirsi reali, uguali e solidali.
Al di là degli abbracci, al di là delle regole di protezione e prevenzione.
Toccherà darsi da fare perché il rischio, remoto ma non troppo, sarà di dimenticare le parole e di pensarci, tra noi, come Quellillà, i nostri vicini da sempre, che nessuno ha mai visto, ma che tutti affermano abbiano un aspetto orribile e siano tanto cattivi che nessuno “era mai andato di là per paura di incontrarne uno”.
Di politica e polemica. Osservando con spirito critico.
Un tempo non ci vedevano perché c’era il dehor, ora ci vedono ma non ci hanno visto arrivare, perché siamo